Afs Intercultura: partire e accogliere, sentirsi a casa nel mondo e costruire ponti di pace
Nel 1955, su iniziativa di un gruppo di volontari che avevano vissuto esperienze interculturali all’estero, nasce la costola italiana di AFS, associazione che promuove il dialogo tra culture diverse, con il fine di contribuire a diffondere e consolidare la pace (https://www.intercultura.it/famiglie/perche-intercultura/?gad_source=1&gad_campaignid=64327721&gbraid=0AAAAADxQBF-sr79cpeiBUaqE259TpVye5&gclid=Cj0KCQjw64jDBhDXARIsABkk8J6A_G5Os1EP-MWAIteCuJ02D0IrjtCu-bU04AUDgu3jbBCEDcZ_ZCAaAkWPEALw_wcB).
Ormai molto tempo fa sono stata una sedicenne in procinto di partire con un programma Intercultura in Australia, oggi ho avuto l’onore di essere chiamata a testimoniare la mia esperienza nelle cerimonie di celebrazione del settantesimo anniversario.
Quando sono partita, alla fine degli anni Novanta il mondo era diverso: la mia è stata un’avventura novecentesca, precedente all’onda tecnologica di Internet che ha rivoluzionato tutto; per mesi ho comunicato con famiglia e amici tramite lettere e cartoline, qualche fax e pochissime telefonate (per il compleanno, Natale e poco più), con i minuti contati.
È stata una esperienza potentissima che ha cambiato non solo la mia vita ma anche quella della mia famiglia che ha affrontato con me tutte le fasi già da un anno prima della partenza, perché Intercultura comincia con le selezioni e non finisce mai. Pochi anni dopo di me mia sorella è partita per l’Argentina arricchendo ancora il nostro nucleo familiare che oltre al ramo australiano (Fox) vanta quello jujeño (Martiarena): legami inossidabili, per sempre. Abbiamo anche ospitato, sperimentando l’effetto di avere Turchia, Brasile e Stati Uniti a casa nostra.
Penso a me stessa di allora con grande tenerezza e orgoglio. Sicuramente questa esperienza è una delle cose di cui sono più fiera, in assoluto e ha avuto un impatto enorme sulla mia vita.
La mia storia comincia in salita perché la famiglia cui fui assegnata era lontana dalle aspettative: due persone molto anziane con figli adulti e lontani, una coppia britannica espatriata, di un’altra epoca, imperialisti, serenamente razzisti (racconto sempre che mi dissero di aver scelto me invece di una ragazza francese che era disponibile perché l’Italia aveva perso la guerra e si aspettavano che io fossi più remissiva…). Ho vissuto momenti di grande frustrazione per fortissime barriere culturali ma ho anche imparato moltissimo, su me stessa e sul mondo, sulla necessità di ragionare e non farsi prevaricare dall’impeto e sulla priorità di concentrarsi per trovare soluzioni, non sprecare energie in polemiche sterili. Avrei potuto chiedere di cambiare famiglia rischiando di essere spedita lontano e perdere l’ambiente e la rete di rapporti che mi ero creata. Ho preferito resistere, aiutata dalla famiglia di un’amica conosciuta a scuola, Kirsty, che giorno dopo giorno mi ha incorporata. A loro ho dedicato il libro sul modello costituzionale australiano scritto poi da grande, che è esposto a casa nel Queensland, nel tavolo/altarino con le foto e i trofei sportivi di tutti i figli, tra cui io, ai balli scolastici e cerimonie di diploma.
Le storie da raccontare sono infinite come le emozioni, vivissime ancora adesso. Se posso individuare un momento di soddisfazione grande è stato quando a un certo punto, repentinamente, ho cominciato a capire tutto quello che si diceva attorno a me. Per almeno un mese io (che ero convinta di parlare inglese) non capivo nulla, mi concentravo solo quando le persone mi si rivolgevano direttamente ma per il resto ero beatamente avvolta in una nuvola di parole incomprensibili, senza però mai sentirmi davvero persa, disorientata. A un certo punto ho smesso di tradurre e cominciato a sognare in inglese, cosa che mi capita ancora e ho compreso che fosse scattato qualcosa nel mio cervello in cui c’è una parte che ragiona in inglese. Padroneggiare la lingua (sebbene con spiccato accento australiano) mi ha aperto tantissime strade e opportunità ma è lungi dall’essere il lascito più importante del mio periodo da exchange student.
In mille modi diversi l’Australia di fine anni Novanta era un mondo lontanissimo. Sono stata colpita dal modello scolastico, che investiva su materie tecniche con competenze pratiche più che sui profili culturali; ho sperimentato una comunità molto meno rigida, un ascensore sociale attivissimo ma anche una società molto razzista, in modo selettivo nei confronti della nazione aborigena. Credo fermamente che Intercultura funzioni come operatrice di pace dal basso, mettendo in contatto persone lontane, diversissime, che imparano a conoscersi e a volte ad amarsi fino a diventare famiglia. Il senso di tutto è espresso dalla mia famiglia riunita attorno alle persone che a sedici anni mi hanno accolta e curata come una figlia, che vengono in Europa e passano a trovare me dopo essere andati dal figlio biologico che vive in Gran Bretagna e che mi conoscono tanto da individuare nella mia bambina gli aspetti del mio carattere come solo un genitore sa fare. Di fronte a mia figlia che gioca con la sua “cugina” argentina che vive in Finlandia provo commozione e gratitudine per Intercultura che porta in giro per il mondo la pace, sulle gambe di exchange students adolescenti, generazione dopo generazione.
Carla Bassu, 30 giugno 2025