APPUNTI COSTITUZIONALI

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Contro il femminicidio: con tutti i mezzi coerenti con la costituzione

2025-05-31 15:20

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Contro il femminicidio: con tutti i mezzi coerenti con la costituzione

Il testo riporta il contenuto della Audizione alla Commissione Giustizia del Senato in merito al DDL che introduce il reato di femminicidio

1.     Premessa. Ubi societas, ibi ius: un intervento necessario

Il tema è scottante e mi sta a cuore da giurista, da costituzionalista ma anche da cittadina, da donna e da madre di una bambina che oggi ha nove anni e che spero possa vivere in un mondo in cui la violenza contro le donne sia un fenomeno di cui si legge sui libri di storia, una tra le tante pagine buie che caratterizzano le vicende dell’umanità e che possono dirsi archiviate.

Per fare questo però occorre agire, fare qualcosa che segni una cesura netta, un punto di svolta che porti un decremento repentino e progressivo dei casi di violenza ai danni delle donne che purtroppo – come dimostrano i dati – si avvicendano secondo una scansione dolorosamente convulsa.  Si tratta di manifestazioni di violenza efferata che si compiono nell’ambito di dinamiche precise, tipiche e ricorrenti e rivelano relazioni esistenti o anche solo percepite, basate sulla prevaricazione, il controllo, il mancato riconoscimento della altrui autonomia e identità individuale, fino al sopruso e alla più estrema privazione della libertà, della dignità e della vita.

È un fenomeno resistente perché evidentemente consolidato e radicato in un contesto sociale e tradizionale che si basa su fasce di una subcultura distorta che fatica a stigmatizzare a fondo la violenza contro le donne.

Il primo pregio che riconosco al DDL oggi in discussione è il riconoscimento di un fenomeno esistente nella società e la scelta di intervenire per contrastarlo.

In questo senso il DDL è perfettamente funzionale al circuito che regola la dinamica del diritto in un ordinamento costituzionale democratico: ubi societas, ibi ius. Laddove esiste nella società una evidenza, una realtà, una necessità, il diritto deve recepirla e dare riscontro.

Se dovessimo lasciare che in modo naturale, il trascorrere del tempo e l’evoluzione della società portino alla diminuzione degli eventi di violenza contro le donne non basterebbe una vita; certamente mia figlia trascorrerebbe la sua vita leggendo cronache di donne abusate, ferite e uccise – se fortunata – se meno fortunata potrebbe anche lei essere vittima, e questa non è una possibilità remota, perché le statistiche sono impietose e mostrano indici inquietanti rispetto alla numerosità e alla trasversalità dei casi che peraltro non tengono conto di appartenenza sociale ed economica o grado di istruzione.

 

Il presupposto su cui fondo la mia riflessione a margine del DDL in oggetto è la necessità di intervenire in un ambito in cui si vive una emergenza purtroppo normalizzata. Il numero e la frequenza dei femminicidi denunciano una situazione di emergenza che però può dirsi tale solo se limitata nell’ambito di un tempo circoscritto. Invece i femminicidi proseguono, si ripetono con continuità e - apparentemente - in modo insensibile alle misure messe in atto dagli ordinamenti per contrastarli.

Si tratta di evidenze riscontrate ed esplicitate anche dalla Corte Costituzionale che in più sedi ha richiamato la necessità di interventi pregnanti e mirati a introdurre misure di prevenzione e repressione volti a contrastare efficacemente il fenomeno drammatico del femminicidio[1] e la «violenza contro le donne di cui è l’espressione più atroce», rilevando l’importanza di un’operazione culturale finalizzata a interpretare e riconoscere segnali della subordinazione delle donne destinatarie di soprusi che vengono accettati perché normalizzati e non sufficientemente stigmatizzati a livello sociale[2].

Naturalmente gli strumenti adottati devono essere accuratamente pensati e ponderati per risultare in equilibrio con l’assetto dell’ordinamento, nel rispetto del delicato apparato di pesi e contrappesi su cui si fonda una democrazia.

 

2. Il femminicidio ai sensi della Costituzione Repubblicana

Alla luce delle mie competenze, concentrerò il mio contributo sull’analisi dei profili costituzionali e – in particolare – sull’impatto potenziale che le novità introdotte dal DDL in oggetto possono esercitare sull’ordinamento.

Da subito infatti sono state sollevate critiche rispetto a possibili profili di contrasto delle misure previste rispetto al parametro costituzionale, in particolare con riferimento al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

Si è da più fronti contestato che il reato di femminicidio risulti incompatibile con il principio di uguaglianza che risulterebbe compromesso da una differenziazione delle fattispecie di reato in ragione del genere delle vittime.

In realtà il femminicidio è qualcosa di diverso rispetto alla mera uccisione di un uomo ma anche di una donna perché si tratta di una fattispecie speciale, atipica, che si manifesta in una dinamica di relazione patologica, significativa nella realtà dei fatti che giustifica un intervento differenziato in ottemperanza al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione che impone in capo alla Repubblica il dovere di intervenire laddove necessario per affermare l’eguaglianza sostanziale.

È qui che colloco le misure relative al femminicidio che comportano senz’altro un trattamento differenziato e una discriminazione che è però ragionevole e dunque non solo ammessa ma richiesta dal nostro ordinamento per realizzare i principi della democrazia.

 

Nel nostro ordinamento sono molte le norme che introducono discriminazioni ragionevoli, agendo per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’uguaglianza, ai sensi dell’art. 3 comma della Costituzione, che legittima i trattamenti differenziati ove necessari per raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale.

Il presupposto delle azioni positive, ammesse e ritenute funzionali alla realizzazione degli obiettivi costituzionali in Italia è prendere atto dell’esistenza di una situazione di svantaggio che deve essere riconosciuta e alla quale occorre rispondere con misure efficaci che si traducono in discriminazioni ragionevoli.

Rilevano in questo senso, tra i diversi esempi che si potrebbero citare:

·      norme che promuovono l'uguaglianza di genere, la protezione delle minoranze, e la lotta contro ogni forma di discriminazione;

·      interventi volti a sostenere le fasce più deboli della popolazione, come le politiche per l'inclusione sociale, l'accesso alla salute, all'istruzione e al lavoro;

·      norme in materia di lavoro, con misure che promuovono l'inserimento lavorativo di categorie svantaggiate, come disabili e disoccupati di lungo periodo;

·      interventi volti a garantire il diritto all'istruzione e a sostenere gli e le studenti con bisogni educativi speciali[3].

In tutti questi casi non può ritenersi violato il principio di uguaglianza.

 

La Corte costituzionale ha chiarito che la valutazione in ordine alla ragionevolezza deve essere operata tenendo come riferimento il bene giuridico oggetto di tutela che nel  caso del femminicidio è rappresentato dalla vita di una donna che viene uccisa per il mero fatto di essere una donna, nel contesto di precise dinamiche riconducibili alla nozione di femminicidio, così come disciplinata in sede di diritto sovranazionale e internazionale, fonti alle quali le norme nazionali italiane devono conformarsi, come prescritto dall’art. 10, comma 1 e 117, comma 1 della Costituzione[4].

Nello specifico, la Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013[5], impone in capo agli Stati aderenti di «proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica» (art. 1), riconoscendo «la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere» e chiarendo, tra l’altro, che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali attraverso i quali le donne sono costrette in una posizione di subordinazione rispetto agli uomini. L’art. 5 della Convenzione, nel disciplinare gli obblighi degli Stati, impone loro di astenersi da qualsiasi atto che costituisca una violenza nei confronti delle donne ed estende esplicitamente tale obbligo alle autorità, funzionari, rappresentanti statali, istituzioni e ogni altro soggetto pubblico che agisca in nome dello Stato. Si dispone anche l’adozione di misure legislative e di altro tipo necessarie per esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione.

La Convenzione di Istanbul riprende nella sostanza le raccomandazioni derivanti da pronunciamenti della Corte EDU, come la sentenza relativa al caso di una donna vittima di violenza domestica (la cui madre viene uccisa dall’ex partner) nei confronti della quale la Corte ha adottato l’obbligo di doverosa diligenza (Opuz v. Turkey, 2009), imponendo alle autorità statali di adottare misure operative preventive per la protezione degli individui la cui vita è in pericolo[6].

Anche la Corte di Giustizia europea, nella sentenza Talpis c. Italia fa riferimento a due disegni di legge presentati nel 2017, finalizzati a introdurre il reato di femminicidio, con l’obiettivo dichiarato di contribuire a fornire un contributo alla lotta in atto a livello globale contro la violenza sessista tramite la previsione di reati caratterizzati[7].

Nello stesso frangente si inserisce anche il richiamo contenuto nel rapporto sull’Italia pubblicato nel 2024 dal Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW), nel quale si registra «con preoccupazione» che il femminicidio non è definito come un reato specifico e si raccomanda di procedere a una modifica del Codice penale volta a «criminalizzare specificamente il femminicidio».

Tutti i riferimenti di diritto internazionale e sovranazionale qui citati sono allineati nell’offrire un quadro che orienta in modo chiaro gli Stati nel senso di agire con misure ad hoc per contrastare violenza di genere e femminicidio e, in particolare, c’è una norma che offre la cornice ideale per l’introduzione di una forma di incriminazione del femminicidio. Si tratta della Direttiva (UE) 2024/1385, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, adottata il 14 maggio 2024 dal Parlamento europeo e del Consiglio che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 14 giugno 2027.

 

Come si evince chiaramente dai parametri del diritto internazionale, le ipotesi di femminicidio ricadono nell’ambito di dinamiche precise e ben determinate, che trovano fondamento ed espressione nel comportamento dell’omicida che risulta specificamente riconoscibile e differente rispetto alla uccisione di una persona (a prescindere dal genere) per i più vari motivi.

Questa affermazione trova riscontro anche nella giurisprudenza interna e, specificamente, nelle pronunce della Corte di cassazione che sempre più spesso si serve del termine femminicidio nel corpo delle sentenze, riconoscendolo come «uccisione di una donna, da parte del partner, quale espressione di un estremo tentativo di perpetuare una condizione di dominio violento»[8].  Si tratta di una accezione differente rispetto all’aggravante determinata dalla relazione coniugale, traducendosi nella specifica fenomenologia della uccisione di una donna operata nel tentativo di esercizio di oppressione violenta e prevaricazione scaturente dal mancato riconoscimento dell’autonomia e della capacità di autodeterminazione della donna che diviene vittima.

 

3. Una strategia organica contro il femminicidio: campagne educative; strumenti preventivi e misure di diritto penale

Personalmente sono molto cauta rispetto alla introduzione di nuove fattispecie di reato e non concordo con la tendenza “panpenalistica” che affida a strumenti di diritto penale la soluzione dei più vari problemi della società. Tuttavia, nello specifico, trovo che l’introduzione del riferimento espresso alla fattispecie penale di femminicidio non possa essere ridotta a una soluzione facile di ripiego ma si renda necessaria a fronte dell’esigenza di riconoscimento istituzionale di un fenomeno patologico effettivamente rilevante nella società. La scelta di contemplare il femminicidio come fattispecie ad hoc, opportunamente determinata e circoscritta – esercita un importante impatto concreto – non meramente simbolico – esprimendo una posizione chiara di riconoscimento della patologia da intendersi come primo passo per la cura. In questo senso condivido la posizione espressa in sede di audizione dal Dott. Francesco Menditto, che ha ricordato il cambio di prospettiva determinato ai fenomeni criminali di tipo mafioso derivanti dall’introduzione nell’ordinamento dell’art. 416-bis del codice penale (associazione di tipo mafioso). Anche in quel caso la nuova fattispecie di reato fu introdotta sulla scia di eventi precisi e, in particolare, in seguito alla uccisione del Generale Carlo Alberto della Chiesa e di Pio La Torre. Introdurre la parola mafia consentì di identificare, riconoscere e stigmatizzare oltre che perseguire il fenomeno nella sua peculiarità. Analogamente, la determinazione del delitto di femminicidio nel codice penale consente di distinguerlo, identificarlo e dunque prevenirlo e combatterlo.

L’introduzione del riferimento diretto al femminicidio non esclude ma si aggiunge a una necessaria, doverosa, massiccia campagna di sensibilizzazione ed educazione da condurre sin dai primissimi anni di vita, da rivolgere a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne.

 

Carla Bassu, 27 maggio 2025

Il testo riporta il contenuto della Audizione alla Commissione Giustizia del Senato tenuta il 27 maggio 2025 in merito al Disegno di legge AS n. 1433 Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime

 

 


 

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